Accusata da una parte delle opposizioni di non prendere posizione sulla strage di civili a Gaza, la premier Giorgia Meloni, nell’atteso question time alla Camera, ha detto chiaramente che “a Gaza la situazione è sempre più drammatica e ingiustificabile” e di “non condividere molte scelte del governo israeliano”, spiegando però “che Israele ha risposto a un disegno preciso di isolamento voluto dai terroristi”.
Ha quindi aggiunto: “Continueremo a impegnarci per la cessazione delle ostilità, per il rilascio degli ostaggi israeliani e per aprire a un processo che conduca alla soluzione dei due Stati e riconosciamo il ruolo dei leader arabi nella regione”. Rispondendo alla richiesta del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Angelo Bonelli, ha infine spiegato che “non è intenzione dell’Italia richiamare l’ambasciatore italiano in Israele”.
Di fronte alla complessità del conflitto in Medio Oriente, la premier Meloni conferma quindi la linea prudente del governo italiano, pur reputando inammissibile la situazione a Gaza. Del resto è la linea adottata, con le dovute differenze, dalla maggior parte degli Stati europei, consapevoli che qualsiasi ritorsione contro Israele rischierebbe di alzare ulteriormente il livello dello scontro.
Di certo, però, Netanyahu negli ultimi giorni ha gettato benzina sul fuoco preannunciando di “entrare con forza a Gaza nei prossimi giorni”. Anche perché, se la politica ad ogni latitudine è piuttosto cauta, settori crescenti della società civile, esponenti accademici, portavoce delle organizzazioni per i diritti umani, membri dei parlamenti stanno parlando senza mezzi termini di genocidio. Persino il Parlamento europeo ha ospitato una conferenza intitolata “Can we call it genocide?”, durante la quale europarlamentari, attivisti e medici hanno denunciato il ruolo passivo e ipocrita delle istituzioni comunitarie, accusandole di nascondersi dietro la diplomazia per non rompere rapporti economici e politici con Israele.
Indubbiamente a Gaza è di scena l’apocalisse. Le brutali operazioni militari israeliane, oltre a distruggere abitazioni, ospedali, scuole e persino convogli umanitari, hanno già provocato decine di migliaia di vittime tra i civili palestinesi. Secondo stime accreditate, i morti sarebbero oltre 50mila, tra cui almeno 20mila bambini, mentre oltre 1,9 milioni di abitanti della Striscia sono sfollati. Il tasso di malnutrizione estrema, conseguenza anche del blocco degli aiuti, è ormai superiore al 90 per cento.
È noto che la mattanza, per gli israeliani e per alcuni commentatori, troverebbe “giustificazione” nella strage del 7 ottobre 2023 compiuta dagli uomini di Hamas. Ma la reazione è davvero spropositata, come ebbe modo di rilevare anche Papa Francesco. Gaza è, di fatto, quasi del tutto cancellata e la “vendetta” è di circa 50 morti palestinesi ogni vittima israeliana.
Molti analisti rilevano come di fronte a questa barbarie ci sia una diffusa inerzia della politica, soprattutto nel Vecchio continente e nel mondo occidentale in generale. Persino Trump, in una situazione che evolve ora dopo ora, è più duro verso Netanyahu. Mentre l’Unione europea sta tradendo il tradizionale orientamento alla pace, la retorica dei diritti umani, ma anche il suo peso economico e politico. Gli analisti osservano che nessun embargo militare è stato imposto e non è stato attivato l’articolo 2 dell’Accordo di Associazione Ue-Israele, che prevede la sospensione dei rapporti in caso di gravi violazioni dei diritti umani. L’Unione ha evitato di qualificare giuridicamente le azioni israeliane: ha scelto di non interferire con il quadro geopolitico o con le alleanze strategiche occidentali. Ciò, però, sta contribuendo a determinare un clima di impunità diplomatica.
Non si esprime un’eresia considerando l’inerzia legata agli interessi economici. Molte aziende europee del settore armi e munizioni hanno visto crescere esponenzialmente i fatturati in queste ultime stagioni. Non è una novità che le guerre arricchiscono soprattutto i “produttori di morte”.
In questo complicato scenario, il dibattito si polarizza tra chi vede nell’inazione dell’Unione europea un fallimento morale e politico – come Francesca Albanese, relatrice speciale Onu, la quale ha chiesto l’apertura di un’indagine alla Corte penale internazionale contro i vertici Ue per complicità – e chi invece ritiene che l’Unione stia semplicemente lavorando dentro i limiti del possibile, tra diritto, diplomazia e realpolitik, ricordando che, ad oggi, nessun tribunale internazionale abbia formalmente riconosciuto la qualificazione di genocidio per le operazioni militari israeliane e che la Corte internazionale di giustizia abbia emesso misure provvisorie, ma non un verdetto.
Occorre aggiungere che l’Unione europea è vincolata dal principio del consenso unanime in politica estera. Mentre alcuni Paesi, come Irlanda, Spagna o Belgio, chiedono misure dure, altri — tra cui Germania, Austria e Ungheria — si oppongono, rendendo di fatto impossibile l’adozione di misure drastiche come sanzioni o embargo.
Pro/Versi – Opinioni a confronto, piattaforma web che rappresenta il dibattito pubblico in corso sui principali temi contemporanei, ha realizzato un dossier sulla passività dell’Unione europea. Un’ipotesi amara è che potrebbe contribuire al genocidio in Palestina. La piattaforma ha rilanciato una serie di articoli internazionali in materia.
Una prima serie di saggi, scritti per lo più ad aprile 2025, illustrano l’aggravarsi della crisi umanitaria a Gaza e ricordano che l’Unione europea ha fornito oltre 1,6 miliardi di euro per il periodo 2025–2027 in aiuti umanitari e piani di resilienza. È ciò che ha ricordato anche Giorgia Meloni. È altrettanto vero, però, che gran parte di quegli aiuti attualmente non sta arrivando alla popolazione.
Due articoli raccolgono dichiarazioni particolarmente pesanti. Sam Jones su The Guardian del 9 maggio 2025 riporta il commento dell’ex Alto Rappresentante Ue Josep Borrell, il quale accusa Israele di “genocidio” e critica l’Europa per non aver usato “tutti i mezzi disponibili” per condizionare Israele. Denuncia che “la metà delle bombe che cadono su Gaza sono europee” e parla di “pulizia etnica più ampia dalla seconda guerra mondiale”. Condanna l’uso della fame come arma e l’inazione politica dell’Unione europea.
Arthur Neslen su The Intercept del 3 maggio 2025 riporta le accuse della relatrice Onu Francesca Albanese ad Ursula von der Leyen di complicità in crimini di guerra, chiedendone il processo presso la Corte penale internazionale.
Per quanto riguarda i singoli Stati, Al Jazeera il 7 maggio 2025 ha accusato il Regno Unito di aver esportato oltre 8.600 munizioni a Israele da settembre 2024, mentre Euronews il giorno dopo ha raccontato che il più grande produttore tedesco di armi, Rheinmetall, ha registrato un aumento del 73 per cento nel settore difesa, con un fatturato di 2,3 miliardi di euro nel primo trimestre 2025. Le vendite di armi e munizioni hanno toccato un record di 599 milioni di euro.
Lauren Walker l’8 maggio 2025, sempre su Euronews, ha riportato le accuse del primo ministro irlandese Micheál Martin ad Israele di “crimini di guerra” per la “strumentalizzazione del cibo e degli aiuti” come arma.
Stefan Steinberg su Wsws, il 12 maggio 2025, ha riportato la condanna di Amnesty International all’Unione europea per aver giustificato i bombardamenti israeliani e ignorato oltre 4.000 detenuti palestinesi senza processo. Si denuncia il totale silenzio europeo su morti per fame, bombardamenti su ospedali e scuole. Citato anche il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz, accusato di sostenere Netanyahu e l’invio di armi a Israele.
Aaron David Miller, su Foreign Policy del 12 maggio 2025, racconta come, a seguito del 7 ottobre, l’Unione europea abbia evitato sanzioni dirette contro Israele, limitandosi a condannare i coloni estremisti. L’autore critica l’incapacità dell’Europa di influenzare il conflitto, sottolineando che la mancanza di una posizione forte ha favorito l’isolamento dei palestinesi e rafforzato la coalizione di destra israeliana.
Se una parte autorevole della stampa internazionale condanna la politica di Netanyahu, ricordando che l’assenza di sanzioni politiche, economiche o militari contro Israele ha contribuito a normalizzare una delle più gravi emergenze umanitarie del XXI secolo, l’Unione europea, da parte sua, può attribuirsi una serie di azioni concrete, soprattutto sul piano umanitario e diplomatico, che costituiscono una risposta tangibile alla crisi. Ed utilizzare la parola “genocidio” richiederebbe prove, processi e sentenze.
Intanto, però, un rapporto di 129 pagine basato sulle testimonianze di oltre cento persone, curato dal Palestinian center for human rights e portato all’attenzione della Corte penale internazionale, documenta centinaia di casi di torture nei confronti di gazawi arrestati dopo il 7 ottobre. I soldati israeliani dell’Idf e i militari attivi nei centri di detenzione israeliani avrebbero sottoposto i detenuti a pressioni psicologiche e fisiche tra cui percosse, scariche elettriche, mutilazioni, privazioni del sonno, abusi sessuali, elettroshock, musica a volume insopportabile, pratiche giuridicamente qualificabili come torture. Le testimonianze raccolte sono spesso confermate da mutilazioni e invalidità permanenti riportate dagli ex detenuti.
Giampiero Castellotti